sabato 5 dicembre 2009

Antonio Monte del CNR di Lecce: i frantoi ipogei


L’olio d’oro nelle viscere della terra
di Antonio Bruno

Frequenti in tutto il Salento, i frantoi ipogei hanno avuto origine nelle isole egee e notevole sviluppo nell'estremo tallone d'Italia. La costanza di temperatura, la difficoltà di furti, l'economicità della realizzazione, hanno favorito il diffondersi di tali tipologie, a partire dal quattrocento. Sotto quei frantoi, uomini ed animali, in simbiosi, vivevano per mesi senza vedere la luce del sole che, solo a fine campagna, avrebbe fatto riaprire i cuori.
Per gli animali, la fine della campagna spesso coincideva con la fine della propria vita perché, ormai ciechi, venivano ammazzati e la loro carne serviva per imbandire le tavole.
Di questo ci ha parlato ieri sera Antonio Monte del CNR di Lecce http://www.ibam.cnr.it/monte.htm nella sala conferenze dell’ex Conservatorio Sant’Anna in occasione di “Spelaion”, incontro regionale della Speleologia pugliese XVI appuntamento organizzato dal Gruppo speleologico Ndronico.
L’Arch. Antonio Monte ha continuato affermando che nel settecento si è passati pian piano alle strutture simiipogee e, quindi, alle costruzioni fuori terra.
La diffusione dei frantoi ipogei è indice dell'importanza che rivestiva, e riveste tuttora, per l'economia dell'area, la coltura dell'olivo.
I frantoi (o trappeti) erano legati all'antica arte della produzione dell’olio che da sempre e in gran quantità, ha costituito e continua a costituire risorsa in tutte le provincie salentine anche se è a tutti noto il momento di crisi di mercato in cui versa il settore.

Per le loro caratteristiche costruttive e per la sempre più crescente industrializzazione, i frantoi ipogei hanno subito un declino inesorabile tanto da essere completamente abbandonati.

Tali ambienti, compresi gli attrezzi ("ordigni") di lavoro, hanno invece una parte importante nel contesto della civiltà contadina e del paesaggio salentino; e grazie all’Arch. Antonio Monte oggi, sono stati indagati negli aspetti spaziali e documentati iconograficamente.

I frantoi, comunque, sono segni di un ambiente particolare; costituiscono significative testimonianze del passato e un importante patrimonio del presente, che, seppure non più idoneo alle attuali condizioni di vita, contribuisce a rendere più sorprendenti questi superstiti luoghi di un prezioso mondo scomparso.

La regione meridionale di Terra d'Otranto è ricca di industrie olearie (torcularium) che possono essere considerate le ultime tracce della civiltà rurale.

Tutelare e recuperare negli anni i frantoi, significa contribuire alla scoperta di valori che hanno rappresentato valenze di natura economica, ma che oggi più di ieri esprimono, con una tradizione umile ma fattiva, la società del lavoro e con essa la valorizzazione di un prodotto vecchio quanto il mondo.

Il vasto numero di frantoi ipogei e semi-ipogei, esistenti nel Salento, è legato alla produzione olearia che da sempre è stata fiorente in questo territorio (fin dal Cinquecento), quando, all'esterno della cinta bastionata di Lecce, si estendeva un'ampia fascia di orti-giardino costituiti da agrumeti, vigneti e da numerosi oliveti, formando un ampio arco intorno alla città.

I frantoi salentini sono quasi sempre ipogei e quindi ricavati nel banco tufaceo.

Generalmente sottostanti al piano stradale, raggiungono una quota di calpestio dai due ai cinque metri, ottenendo così all'interno un'altezza media minima che varia dai due ai quattro metri circa.

Cosimo Moschettini, medico e studioso di "rustica olearia economia", nel suo trattato dal titolo Osservazioni intorno agli ostacoli de' trappeti feudali..., così scriveva dei frantoi: «... I trappeti sono generalmente tra noi tante grotte sotterranee scavate nel tufo, o in una specie di pietra calcarea più o meno dura detta volgarmente leccese».

Il loro andamento planimetrico può essere classificato nei tipi longitudinali, mistilinei, articolati; ciò in funzione della disposizione degli ambienti di deposito, di lavoro e di soggiorno. Questi ultimi destinati agli operai e agli animali addetti al movimento rotatorio delle macine.


Tali peculiarità costruttive avevano soprattutto una loro ragione di essere legata alla conservazione del prodotto. I frantoi, infatti, dovevano avere una temperatura calda e costante oscillante tra i 18-20 gradi centigradi che serviva a favorire il deflusso del liquido quando le olive macinate venivano sottoposte alla torchiatura e alla separazione dell'olio dalla sentina che si depositava sui pozzetti di decantazione.

Questi ambienti venivano ulteriormente riscaldati dal calore emesso dalle numerose lucerne che ardevano giorno e notte, dalla fermentazione delle olive, a cui si aggiungeva il calore prodotto dal lavoro degli uomini e degli animali.


All'esigenza della temperatura costante del luogo, si doveva aggiungere anche l'aspetto economico; il costo della manodopera per scavare un frantoio era minore rispetto a quello da assegnare ai maestri di muro specializzati nel costruire vani fuori terra con coperture particolari, quali quelle in uso ovunque sul territorio, dette alla "leccese" (volte a spigolo e a squadro).

Osservando questi ambienti, si possono rilevare tipologie comuni ai diversi tipi ipogei quali l'accesso agli stessi a mezzo di una scala quasi sempre a rampa rettilinea, ricavata anch'essa nella roccia e coperta con una volta a botte. Ai lati di essa sono ubicati altri spazi (detti in gergo sciane) in cui venivano depositate le olive in attesa della molitura. La sopradetta scala immette in un grande vano, luogo centrale della lavorazione (qui avvenivano le operazioni di macinazione e spremitura) dove è sita la vasca con la macina costituita da una piattaforma circolare in pietra, ovvero, da una grossa pietra (del diametro di metri 1,80-2,00) di calcare duro idoneo a schiacciare le olive.

Questa massa molare di forma circolare, posta in verticale, risulta collegata ad una trave lignea orizzontale fissata nella roccia. Intorno al grande vano dove avvenivano tutte le operazioni di macinazione e di spremitura, ritroviamo inoltre le sciane e i torchi (torcular) per la torchiatura della pasta delle olive schiacciate.

Questi ambienti, dove erano posizionati gli spremitoi, venivano chiamati lacus ossia ambienti adibiti alla pressione della pasta delle olive schiacciate".
Tale ambiente di lavoro è munito altresì di vani destinati a stalla, a cucina (dove i frantoiani consumavano i pasti) e a dormitorio degli operai quivi presenti almeno sei mesi all'anno (da novembre ad aprile). Tutti questi ambienti risultano privi di luce diretta.

L'unica fonte di illuminazione è resa da uno o due fori praticati al centro della volta del vano principale; un foro è comunque sempre sito in corrispondenza della vasca per assicurare ancora il ricambio dell'aria.

I torchi, in uso nelle industrie olearie, sono in legno di quercia e soprattutto di ulivo. Risultano essere di due tipi: alla "calabrese" e alla "genovese".

Dai disegni di alcuni torchi alla "calabrese" (pressoria), rimasti quasi integri ma in abbandono, si evince la loro composizione: una grossa trave orizzontale, pancone (prelum), attraversata da due viti filettate verticali (malus) incassate su plinti di calcare duro e in alto contro il banco roccioso.
Questa robusta trave orizzontale lunga m 2.30, alta 0.25, profonda 0.25 (queste sono le misure della trave del torchio conservato nel frantoio di Palazzo Granafei di Gallipoli) era resa mobile da due dadi strinti alle viti verticali; due frantoiani facevano ruotare questi dadi avvitandoli, quindi, la trave premeva sui giunchi (fisculi) incolonnati sotto, tra i plinti di calcare.

Questo "ordigno" fu insostituibile fino a tutto il Settecento e anche fino ai primi anni dell'Ottocento.

Il torchio alla "genovese" ad una vite — che richiedeva maggiore spazio nell'uso —garantiva una più perfetta e funzionale spremitura della pasta delle olive.

Giovanni Presta nel suo trattato dedica un paragrafo alla costruzione degli "ordigni oleari". Nel paragrafo decimo del cap. VII, l'autore descrive — dando tutte le misure espresse in palmi napoletani (m 0.2645) — tutti i pezzi che servono per costruire un torchio alla "genovese" che lentamente si iniziava a conoscere ed usare nel Salento.

Questo "ordigno" era molto diffuso a Genova e in tutta la Liguria, in Toscana ed in altre località. Esso viene introdotto nel Regno di Napoli solo a partire dai primi anni del secolo scorso.

A tal proposito giova ricordare il testo di D.A. Tupputi dal titolo Rejlexions succintes ..., che così scriveva: «...Il funzionamento del torchio è pieno di difetti dal momento che esso non agisce perpendicolarmente sui canestri che contengono la pasta ...Mi sembra che il torchio adottato a Genova e Marsiglia meriti di essere preferito a quello usato nel Regno di Napoli».

I torchi adoperati nei frantoi salentini erano alla "calabrese".

Ad essi, lentamente, vennero aggiunti singoli o "batterie" di torchi alla "genovese".

Quest'ultimo "ordigno", una volta introdotto nel Salento, soppianta il precedente e viene adoperato in tutte le industrie olearie, soprattutto in quelle edificate ex-novo.

Il torchio era incastrato tra due grossi pilastri in pietra (tufo o pietra leccese). Esso si compone di una madrevite fissa posta in alto. Il centro della madrevite è trapassato da una vite mobile alla quale è incorporato uno zoccolo di forma tronco conica nel quale a sua volta sono praticati due fori circolari che servono ad infilare una stanga per stringere il torchio.

Sotto lo zoccolo è posto un robusto asse di legno (pancone) che esercitava una pressione sui giunchi (fisculi) incolonnati e ripieni di pasta di olive macinate.

Durante le operazioni di spremitura questo "pancone" saliva e scende­va verticalmente tra i due pilastri in pietra.

Tale movimento era regolato da due canalette scavate nelle facce interne dei pilastri.

Alcuni di questi torchi sono completamente in legno. La madrevite, la vite, lo zoccolo e le due colonne, sono sorrette da un grosso "pancone".

Dal rilevamento dei frantoi presi in esame si ricava che queste strutture hanno dimensioni planimetriche che variano da mq 200 a 700 circa ed alcune conservano — anche se in completo abbandono — ancora le vasche, con una, due e tre pietre molari e i torchi alla "calabrese" o alla "genovese".

Queste "macchine industriali" sono le più esposte al degrado e alla scomparsa dai luoghi di produzione ormai da decenni non più in attività.

Conoscere tali spazi architettonici significa, quindi, tutelarne le valenze, che, per le particolari caratteristiche agrarie meridionali, sono altresì, parte integrante del paesaggio e dell'architettura rurale che connotano il territorio salentino.


A P P E N D I C E Gli antichi Romani molivano le olive in appositi frantoi che essi chiamavano trapeta o trapetum. Con il termine "trappeto" noi indichiamo un luogo e una struttura dove avveniva la trasformazione delle olive in olio. I romani indicavano una macchina dove si separava il nocciolo dalla polpa.
Questo "ordigno", infrangeva la polpa dell'oliva e la separava dal nocciolo; alla fine dell'operazione, la pasta delle olive (sampsa) veniva estratta dal bacino di questo trapeta e se ne faceva fuoriuscire tutta la morchia.
Successivamente la sampsa veniva trasportata sulla piattaforma del lacus (ambiente dove erano ubicati i torchi per la spremitura) dove aveva inizio la torchiatura della pasta per ottenere l'olio.
La macchina si componeva di diversi elementi: mortarium, bacino del frantoio; milliarium, cilindro centrale, che formava con il mortaio tutto un pezzo; orbes, macine semisferiche; columella, perno; cupa, parallelepipedo di legno sostenuto ed attraversato dal perno e ricoperto da lamine metalliche; modioli, due manici di legno che attraversavano da parte a parte le macine e si inserivano nella cupa; (due operai facevano girare le macine attorno al perno agendo sui modioli); fistula ferrea, bullone che fissava la cupa alla parte superiore del perno, armillae, anelli che stringevano i modioli alla loro uscita dalle macine e regolavano gli spostamenti orizzontali di quest'ultima tenendole sempre a distanza dalle pareti del bacino.
Dei cuscinetti di legno (orbiculi) erano introdotti tra il pilone e la cupa per regolare la distanza delle macine dal fondo del bacino. Il mortarium, la milliarium e le macine semisferiche (orbes) erano di un calcare duro. Nel caso di quello ritrovato a Pompei, nella seconda metà del settecento, i pezzi prima citati sono di lava del Vesuvio.
Grazie a questo ritrovamento, avvenuto durante gli scavi che ebbero inizio nel 1748 per volontà del sovrano Carlo di Borbone, è stato possibile conoscere un trapeta romano e anche risalire alle sue dimensioni espresse in piedi (m 0.2957). Il diametro del mortarium è di tre piedi (m 0.8871); il diametro del milliarium è di un piede (m 0.2957); le orbes (macine semisferiche) sono di due piedi scarsi (m 0.5914).

La bestia era indispensabile nel trappeto. Collaboratrice preziosa, condivideva uno spazio quasi in comune cogli operai.
Assieme ai frantoiani, risaliva in superficie a stagione finita: cioè dopo cinque-sei mesi dal giorno in cui, in autunno, era stata calata. «Forse l'operazio­ne più delicata era quella che si occupava di far discendere l'animale.
Bendato cu l'occhiali, per evitargli capogiri, a ritroso, spronato, trattenuto da robusti contadini tramite la capezza e la praca, lo si guidava a scendere, lentamente, finché raggiungeva finalmente la sua stalla, ricavata nello spessore di una parete perimetrale della grotta principale»
(L. MILIZIA FASANO, Il trappeto sotterraneo in Terra d'Otranto, Cavallino di Lecce 1991, pp. 23-4).fonte: Frantoi Ipogei del Salento, Antonio Monte

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